Vate retro Gabriele!

PENNE – Duro discorso ai pennesi al ritorno dalla prigionia di LUIGI POLACCHI. Nel mirino D’Annunzio. Il documento che segue non è stato mai pubblicato.

E’ il discorso che tenne Luigi Polacchi ai concittadini al ritorno a Penne dalla prigionia magiara. E’ un duro attacco, esplicito a Gabriele D’Annunzio e indiretto al governo liberale italiano che con le autorità militari aveva lasciato morire di fame centomila prigionieri della Grande Guerra, impedendone gli aiuti finanche dai familiari. E’ la vibrante protesta, a caldo, di chi sul fronte ha dato tutto se stesso, subendo prima il martirio della prigionia in mano degli austriaci e poi l’onta della patria che gli rimproverava di essersi fatto catturare e di non essere morto e perciò lo qualificava vile, traditore, imboscato d’oltralpe. Gli ex-prigionieri, inoltre, al ritorno in patria, erano stati umiliati, dovendo presentarsi in vari campi di concentramento per rendere conto della loro cattura: per molti di loro si erano riaperte in patria le porte della prigione!Per la prima ed unica volta vediamo di fronte i due poeti con il loro opposto sentire. Contrariamente a quanto si possa pensare, Polacchi, riconoscerà il genio del grande poeta pescarese quando lo si vorrà negare, e lo difenderà a spada tratta. Nel 1919, però, quando Polacchi levò per primo la sua voce, invitando ad onorare i caduti per la Patria, non si poteva forse dimenticare il disprezzo sarcastico e solitario di D’Annunzio che, vedendo i morti sul Carso, avrebbe detto (ma sarà vero?): Oh, belle femmine al mare! Qui ….accovacciarsi!

_______________________________________________________________________________

Concittadini,

permettetemi di rispondervi a nome di tutti i miei compagni di disgrazia. Se cotesti festeggiamenti sono rivolti a noi come a concittadini, ben giungano accetti al nostro cuore, come affermazione d’affetto, a questo cuore che seppe tanti lutti e tante lacerazioni, che visse arido nel deserto e nella melma e si vuol riaprire alle voci della terra e della famiglia raccolte soavi.

Se le vostre feste si rivolgono a noi come per simbolo, come a celebrare nel prigioniero liberato la liberazione degli uomini da una mano inguantata di ferro che ha serrata la terra e ne ha premuto sangue per quattro anni, accettiamo di essere questo simbolo con la promessa che dalla forgia di fuoco, ove gettammo i nostri cuori e le nostre spade per la fusione incandescente, sorga il soffio di una buona novella.

Ma, se come cittadini d’Italia, volete guardarci sorridenti e applaudirci, badate che il vostro sorriso non geli dinanzi alle rughe della nostra fronte e al velame delle nostre pupille stanche e che il vostro applauso non contrasti col nostro muto pensiero.

E’ ora, o cittadini, che sia concesso anche a noi alzare la fronte tenuta china per tre anni sul letame del nostro dolore, e chiedere: perchè l’Italia ufficiale o quasi ufficiale ci battette? Perché ci abbandonò? Perché ci disse sciagurati o svergonati? Perché ci ingiunse per bocca del suo vate che noi non s’ha diritto alla gloria? Sih! La gloria! Il vate d’Italia, l’esclusivista, potente e prepotente non concede gloria ad altri, ché non ne avanzerebbe per sé, egli che di tal nome pasce la sua bocca. E se la tenga. Or dunque, noi che di fronte alla distesa della morte scoprimmo la nostra testa pensierosi, noi che conoscemmo la morte e per questo perdonammo forse anche al nemico, noi gliela lasciamo la gloria, tutta, non per essa entrammo nella guerra, e seguitiamo il nostro cammino su per le nostre povere e sassose vie alpestri, col nostro fardello che destino c’impose dicendoci la sua parola più grande: “sacrificio”.

E’ la parola che contiene il nostro programma futuro, come contenne il nostro passato.

Ché grande è la sua comprensione: da quando tra l’inferno dei cannoni e delle mitragliatrici, lame sottili a fior di testa e di vita, rocchettanti vigliacche appostate, tra la bufera dei fragori e degli squarci di petti e di rocce, volanti al cielo i brandelli, immoti, fermi, ci abbandonarono e ci dissero “restate” e fummo sacrificati al nemico, fino a quando prigioni, sentimmo chiudere dietro di noi il cancello ferrato di quel rettangolo atroce ch’è un campo di prigionia: e i lunghi viaggi a piedi sanguinanti, affannati, sfiniti di febbre e di dissenteria per giorni e giorni; come branchi di bruti guardati da ceffi. E lo staffile e l’insulto dei crudeli; e il sentirsi rifiutare da una donna, una madre, la carità d’una goccia d’acqua; e il sentirsi beffeggiare da bimbi ignari ma educati alla comune scuola; e l’umiliazione di un passaggio, schierati, custoditi, sotto il monumento del nostro più grande, a cui di giorno in giorno doveva giunger l’eco delle fucilazioni e il grido: “Viva la patria” dei martiri giustiziati nel vicino castello.

Ma a che ricordo queste cose? Non sono esse sacre al promesso silenzio? Non sono esse santificate dal tacere?

Concittadini, io non parlo per riprovare l’accusa, né per desiderio della gloria a cui il Vate dichiarò volerci negare.

Ma, per i due quinti dei nostri prigionieri lasciati nei deserti di Serbia e Albania e Russia e Austria bassa ed alta e Ungheria, ove furono impiegati a lavorare trincee e contro alleati e fratelli in violazione del diritto delle genti, per tutti i battuti, vilipesi e sputati, per tutti i giovani sfiniti di fame a 20 anni, vecchi laceri come non ho mai visti cenciosi, fruganti con unghi acuti i pidocchi che bruciavano il loro dorso nel sudiciume, fruganti fra il letame degl’ immondezzai bucce marce di patate per sfamare la settimanale fame, per i figli di madri, così legati al palo, sollevati da terra, come Cristo Dio, con le braccia legate in alto da una corda, un secchio d’acqua davanti e un croato che li guardava che spruzzava loro il viso negli svenimenti o li schiaffeggiava per destarli e per non destarli più…. per tutti i crocesignati, i marchiati d’una croce bianca calcina dietro la schiena come fuggiaschi, contro cui ognuno poteva sparare al primo nuovo tentativo d’evasione, per i nostri prigionieri mutilati, che crudeltà raffinata tedesca divertivasi a far ballare su le gambe di ferro, per i trentamila prigionieri colpiti da tifo petecchiale, murati vivi nelle loro baracche e ivi lasciati morire tutti malati e sani, nel buio, brancolanti, accesi di tifo e di fame; poi, morti, tratti fuori con gli arpioni ed uncini, per le casse nere ammonticchiate l’una sull’altra e trascinate da un carro campestre a gran trotto verso il cimitero, per le interminabili distese di croci che coprono le plaghe del suolo nemico ove aleggia il sospiro delle nostre madri ignare e inconsolate, solo per tutto questo io grido : Nessuno aveva il diritto d’insultare la nostra miseria!

E basta: Ora siamo in patria; la vetta d’Italia è nostra; l’idea per cui combattemmo volenterosi a ferro e a fuoco è realtà. Il volere della nazione e dei singoli ha dato la vittoria. Essa è vestita di sangue. Ma lo sapevamo; pure la volontà fu ferma. Andammo al fuoco, consci della sua potenza distruggitrice e consci della sua potenza purificatrice. Molta luce è oggi apparsa all’orizzonte, che ieri era tenebra maculosa. Ringraziamo i caduti, solamente.

Se è fatalità che il cammino umano sia sparso di vite, se è sorte cruda che regge l’esistenza come legge, e dalle logorate forme che il mondo in suo lottare mise da parte, sorga la nuova vita, io saluto tutti gli scomparsi, io saluto tutti i caduti, gli umili, gli ignoti. E molti ve ne sono di cui ricordiamo ancora la voce e l’affetto!

Compagni, memori noi siamo e tenaci nel nostro amore e nel nostro dolore. E voi, madri, piangete ancora…..Siano le vostre lacrime nel rogo di queste annate come perle colorite ai riflessi o come chicchi d’incenso per un sacrificio immacolato.

Ecco io dimentico tutto. Noi perdoniamo per quei morti. Sento solo dal mio petto una forza di commozione, un bisogno delle voci note, dei visi noti, un raccogliersi di memorie, tutte le parole di chi era in casa e più non c’è e non vi sarà, una necessità di focolare, anzi della catena del focolare quella che, bimbi, non dovete dondolare per non turbare i nostri morti, un desiderio del profumo della nostra casa, così diverso da casa a casa, che ogni casa ha suo proprio ed unico, ch’è l’odore del fuoco nel focolare e del pane nell’arca, ciascuna il suo.

E’ su di essa, è nella famiglia che noi vogliamo ricostruire il futuro di domani. Scorgeremo i nostri errori; ne siamo esperti. Non ci pentiamo. Correggeremo la nostra lotta.

Eccoci oggi ad aver preso quasi il posto che s’avea il nemico nel mondo prima che si scatenasse tanta ruina.

Sembra fatalità di tutte le guerre che il nemico sconfitto faccia di sé erede e nel bene e nel male il suo vincitore. Eccoci oggi di fronte al confuso ideale bolscevico che dilagando dalla Russia attraversa tutti i popoli tartari ed europei del morto impero austro-ungherese fino alla democrazia meccanica della Germania, cioè fino alle porte della nostra Italia, eccoci dunque di fronte a questi avanzati ideali, rappresentanti della conservazione, sostenitori del regolato fondo del nostro tradizionale regime. Come ci comporteremo? Cosa faremo?

Idealmente sembrerebbe che questi giorni sarebbero quelli più propizi per l’avvento d’un apostolo il quale potrebbe ripetere alle masse dilatate il miracolo di un nuovo Cristo.

Politicamente sembrerebbe che le vie fossero due: o lasciarci invadere dall’onda gonfissima che dilaga dalle Russie o resistere ad essa ad ogni costo anche con la forca. Ma sottentra il genio della nostra razza, l’equilibrio della nostra misura, il modus latino, soffuso del divino impercettibile sorriso di messer Ludovico sovra gli uomini e le cose e sovra la parvenza degli uomini e delle cose: e la nostra via, la mediana tra gli estremi, è là che c’invita. Sia benedetto il nostro sorriso e la cristallinità tersa del nostro sguardo sia di fronte al dolore che di fronte alla gioia.

Per essa la nostra via è infallibile. Percorriamola.

Solamente, una visione mi smarrisce l’animo: sulla pianura del mondo deserta, desolata, senza un uomo, scende la sera; io veggo una donna vestita di nero, seduta e piangente, tacita, piangente cheta, come quando il dolore è molto prossimo e non vuol parole. Quando le dico, scongiurandola a mani giunte: Madre ancora tu piangi? Forte ella piange, dirottamente, senza conforto. Ella è l’Umanità.

Candido Greco

Articoli correlati

Pin It on Pinterest

Share This