“Ho vinto l’ultima battaglia dopo 45 giorni di ospedale di cui 30 passati da intubato ma devo tutto al dott. Giustino Parruti infettivologo dell’ospedale di Pescara e la dottoressa Antonella Frattari del reparto di rianimazione” .Così Luciano ci racconta la sua disavventura con il coronavirus, come una personale guerra contro un nemico invisibile che, molto spesso, ha spiazzato anche medici e diagnosi.
Ma hanno capito subito che ti eri contagiato ed ammalato?
No. Per sei giorni mi hanno rifiutato il tampone, nonostante, con febbre a 40, avessi tutti i sintomi del corona. Rifiutavano per il solo motivo che, fra i tanti sintomi, avevo una forte dissenteria, ed i medici pensavano che si trattasse di virus intestinale. Mi hanno somministrato l’antibiotico Rocefin, che poi si è rilevato fatale per il Covid 19, ma allora nessuno ne sapeva nulla.
Il settimo giorno, era il 14 marzo, ero distrutto, non riuscivo ad alzarmi dal letto ed a quel punto ho chiesto a mia madre di chiamare il 118. Appena arrivati, si sono resi conto della gravità del mio stato di salute e senza neanche visitarmi mi hanno portato direttamente a Pescara.
Hai avuto una spiegazione su perché, malgrado la giovane età, tu sia stato così male?
Parruti, il dottore che mi ha preso in cura, mi ha spiegato che all’inizio di marzo non si era capita l’importanza della “rapidità della diagnosi” concentrandosi più sulla “qualità” della stessa. Oggi invece si opta per la rapidità, perché si è capito che il virus preso subito, nell’immediato, non crea nessun danno: infatti, mia madre portata in ospedale subito, è stata curata con la sola mascherina dell’ossigeno, niente di più.
E poi cosa è accaduto?
Arrivato in ospedale l’ultima cosa che ricordo, dopo che mi hanno applicato la mascherina con l’ossigeno, sono le porte dell’ascensore. Mi sono svegliato pensando fosse passato un giorno e invece ne erano passati 30: ero stato tracheotomizzato e avevo mani e piedi legati. Dalla rianimazione sono stato trasferito al reparto malattie infettive per 15 giorni. Non finirò mai di ringraziare tutto il personale sanitario, professionisti impareggiabili e persone meravigliose.
Quali erano le tue condizioni?
Il dott. Parruti mi ha raccontato che, appena trasportato, la prima TAC evidenziava entrambi i polmoni quasi del tutto danneggiati e, nella lastra, apparivano come fossero di vetro smerigliato. Il diciottesimo giorno avevo entrambi i polmoni che non rispondevano più, ero praticamente morto, tanto che il Professore chiamò personalmente mia sorella a Londra dicendole di prepararsi al peggio. Quella stessa notte lui tornò nella mia stanza per tentare il tutto per tutto e confidando nel cuore che ancora batteva forte. Ve lo dico con parole mie ma letteralmente mi bombardó i polmoni di Eparina e di un altro farmaco che veniva usato per l’artrite. Dopo un giorno e mezzo i miei polmoni si erano puliti quasi completamente. Devo tutto al professor Parruti e lui, con estrema umiltà, mi ha sempre detto di aver fatto solo il suo dovere.
E comunque sei stato fortunato
Parruti mi ha detto che, nei casi come il mio, due sono i fattori determinanti: il Padreterno, se uno è un credente e la fortuna. Ma io so che la mia fortuna è stato essere nelle giuste mani.
E quando sei tornato a casa come ti sentivi?
Psicologicamente sono stato male perché non capivo come fosse stato possibile arrivare ad un passo dalla morte senza avere patologie particolari, io soffro solo di glicemia alta ma sono sotto stress. In più non bevo alcolici e non fumo.
Cosa ricordi di quei 30 giorni?
Solo degli strani sogni. In uno stavo a Penne in una clinica privata inesistente e a causa delle mie condizioni mi portavano a Corinaldo, che non sapevo neanche dove stesse. Quando mi sono svegliato dalla sedazione pensavo di essere ricoverato proprio nella città marchigiana. L’ultimo sogno l’ho ricordato dieci giorni fa: ero in ambulanza e mi stavano traferendo in questa clinica e due infermieri parlavano di una festa di paese sotto l’ospedale e l’ambulanza aveva difficoltà nel procedere. Altre volte sognavo di essere ricoverato e lungo il corridoio del reparto, dove non poteva entrare nessuno, si trovavano tutti i miei parenti che chiacchieravano tra di loro e mi chiedevo del perché non entrassero a salutarmi.
Che problemi hai avuto nel tornare alla tua vita normale?
Ricominciare è stata dura, le funzioni vitali sono state ferme tuuti quei giorni, i polmoni erano grandi come quelli di un bambino di nove anni ed ad oggi, dopo tre mesi, i polmoni sono al 65% di grandezza normale.Quando cammino un po’ di più rispetto al solito, mi devo fermare e riposare. Mi ritengo un graziato perché questa malattia può intaccare anche la corteccia cerebrale e provocare una sorta di sindrome depressiva. Il mio amico di stanza, infatti, ha tentato il suicidio.
E i rapporti con le persone come sono cambiati?
Tanti hanno paura di incontrarmi perché pensano che li possa contagiare, in realtà forse sono l’unico con cui possono stare super sicuri, visto le miriadi di anticorpi che ho sviluppato! Qualche giorno fa dovevo farmi una visita oculistica, in un ambulatorio privato, e quando ho dichiarato che avevo avuto il Covid 19 non mi hanno fatto fare la visita. Un’altra volta, un tecnico della Telecom, vedendo uscire l’infermiera dal mio appartamento e appurando all’istante, dal sottoscritto, della malattia avuta, con una scusa ha girato i tacchi e non mi ha riparato l’impianto internet. Molti conoscenti mi salutano da lontano o non si avvicinano più di tanto, ma io non mi offendo e li capisco, sul Covid c’è stata tanta malainformazione ed è più facile cadere nella irrazionalità della paura che nella razionalità di andare a documentarsi.
E non a caso la stessa OMS ha coniato il termine di in fodemia proprio per indicare la patologia che ha fatto pari danni del Coronavirus, disorientando le persone e impedendo di avere una cognizione consapevole sulla malattia per porre in essere i dovuti atteggiamenti. Grazie Luciano, la tua testimonianza sarà, anche sotto questo aspetto, una fonte preziosa da conservare.