IL SEGRETO PROFESSIONALE DEI GIORNALISTI. L’APPELLO DI PRIMO DI NICOLA:«CHE VOGLIAMO FARE?»

Dal post del 24 novembre 2017, ore 15:12, sulla pagina facebook di Primo Di Nicola, già direttore de il Centro: “Le fonti giornalistiche secondo la Corte di Strasburgo sono inviolabili. Le procure italiane continuano a sequestrare i computer nelle redazioni. La solidarietà ai colleghi Borzi e Bonazzi è scontata.

Ma del segreto professionale dei giornalisti, quest’altra barzelletta tutta italiana vogliamo parlarne? Chi ci è passato sa cosa voglio dire. Se vogliamo affrontare seriamente la questione non possiamo più limitarci ai comunicati disostegno. Stavolta si tratta di notizie riguardanti i tabulati dei servizi segreti. Ma la materia fa poca differenza. La verità è che si tratta di un attacco alla libertà di stampa. Perché senza copertura delle fonti è impossibile scrivere articoli di una qualche serietà. Allora, che vogliamo fare?”. Primo Di Nicola si doleva della vicenda che qui riprendiamo dal notiziario di Franco Abruzzo (www.francoabruzzo.it – Giornalisti per la Costituzione): “La Guardia di Finanza ha acquisito documenti e file informatici del giornalista Nicola Borzi (autore dell’articolo ‘La Popolare di Vicenza e i conti dei servizi segreti’ pubblicato il 16/11) nelle sedi di Milano e Roma del quotidiano economico ‘Il Sole 24 Ore’, nell’ambito dell’inchiesta imperniata sull’articolo 261 Cp (“Rivelazione di segreti di Stato”)”. La polizia giudiziaria anche nella redazione del quotidiano “La Verità” a seguito di un articolo di Francesco Bonazzi pubblicato il 15/11 (“La Popolare di Vicenza la banca dei servizi segreti”). Monito di Alessandro Galimberti (presidente dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia): “Il Csm faccia chiarezza. Una ingerenza peraltro già difficile da ammettere in una democrazia veramente compiuta”. Franco Abruzzo (Cnog): “La Procura di Roma ha ignorato le sentenze della Corte di Strasburgo: le fonti dei giornalisti sono inviolabili”. Chiede, il dottor Primo, grande giornalista abruzzese, pioniere di mille inchieste su terrorismo, mafia, servizi segreti: “Che vogliamo fare?”. Caro Primo, è presto detto: una beata minchia! Nessuno vuole fare una beata minchia, a cominciare dai giornalisti! Ne parlano, forse, nei talk show? Eppure non in pochi sanno ciò che si dovrebbe fare ma ben in pochi hanno il coraggio anche solo di dirlo, figuriamoci di farlo! Perché non è “politicamente corretto”, non è opportunisticamente conveniente, non è accettato dalla farisaica, imperante, sciagurata retorica dei professionisti della legalità, quella sprofessoreggiata, con fare vanesio, inconcludente, sviante e stereotipato, da dietro banchetti col frontale coperto da un tazebao con su la scritta “Legalità ..(seguita dal salmo di giornata)”. Do you remember, Primo? Ci hanno fatto accomodare pure te, dietro uno di essi, anche qui in Abruzzo, immortalandoti in una foto. Ma qualcuno c’è stato che, con coraggio, ad onta del “politicamente corretto” e in barba alla sconvenienza (pure personale..), ha provato a dirlo cosa si dovrebbe fare. È un tuo collega, un giornalista, del tuo stesso ex Gruppo di appartenenza, L’Espresso, Stefano Liviadotti. È suo il magnifico libro: “Magistrati. L’ultracasta” (Bompiani, 2011), di irreperibile onestà intellettuale e rarissimo omaggio alla verità: Dovrebbero leggerlo nelle scuole invece di imbottire il cervello degli studenti con sciocchi sermoni, stucchevoli luoghi comuni e acritiche giaculatorie sulla legalità, che lasciano il tempo che trovano e che le cronache s’incaricano di ridicolizzare insieme ai relativi linguaioli. Assicura Liviadotti, parlando della banca dati della sezione disciplinare dei magistrati, che “a saper dove mettere le mani, è una vera miniera d’oro. Dentro c’è di tutto. Una via di mezzo tra uno schiocchezzaio d’autore e un campionario di miserie umane, quando non di vere e proprie malefatte”. Ecco il punto! Proprio a te, caro Primo, che fosti pure indagato dalla procura di Roma per averle opposto il rifiuto di farti delatore della tua fonte per le notizie pubblicate su l’Espresso il 9 novembre 2000, non sfuggirà che la questione non è l’“attacco alla stampa”, l’“ingerenza” inammissibile, “l’inviolabilità delle fonti” e via preficando. No, il punto è quello indicato. La delega conferita dal procuratore capo di Roma nella vicenda di cui ti duoli è una malefatta o no? La condotta investigativa della GdF nelle sedi dei due giornali è stata una malefatta, in via autonoma o in concorso col procuratore di Roma, oppure no? Queste sono le domande a cui rispondere. Se ci si appella, genericamente, alla legge sulla professione giornalistica (l. 69/1963, art. 2, c.3), alla giurisprudenza di corte costituzionale, cassazione e corte europea dei diritti dell’uomo, non si coglie nel segno! Bisogna rispondere alle domande indicate. Non sono “politicamente corrette”? Pazienza, “hic Rhodus hic salta”! È a quelle che si deve rispondere se si vuole che la barzelletta di cui parli diventi una cosa seria. Magari la legge, la giurisprudenza e i sinedri tutti daranno ragione a Borzi e a Bonazzi ma, intanto, la procura e la guardia di finanza, sequestrandogli dispositivi e carte, non solo hanno scoperto ciò che volevano appurare ma anche tutto l’altro appresso, archiviato in quei dispositivi, che nulla c’entra con la ragione di quei sequestri!!! Proprio per questo, anzi a maggior ragione, è bene rispondere con precisione a quelle domande. Infatti, se la risposta è no, allora la conclusione è che procuratore e finanzieri hanno agito da soggetti (istituzionali) perbene e, dunque, bisogna smetterla con menate e piagnistei corporativi. Se invece la risposta è sì, allora la loro condotta va classificata, giustappunto, come “malefatta” e a quel punto, come tu stesso dici, non sarebbe questione di quattro righe di un comunicato stantio, redatto con lo stampone tanto per celebrare la vieta liturgia della solidarietà di specie e della geremiade di prammatica. A quel punto, occorrerebbe ben altro. Giornalisti, i loro ordini professionali, comitati di redazione ecc., dovrebbero inondare di denunce penali e/o civili il procuratore capo di Roma e i finanzieri delegati e procedenti, per quella mezza dozzina circa di reati che, tutt’assieme, avrebbero, in ipotesi, consumato con quegli accessi. Nel contempo, trattandosi di questione cruciale e basilare per la professione, tutti i giornalisti d’Italia dovrebbero scioperare in bianco, pubblicando, a tempo indeterminato, solo articoli su malefatte della magistratura (eruditi da Liviadotti) e della polizia giudiziaria (negli archivi delle redazioni ci sono intere biblioteche disponibili in argomento..) la quale, da sola, merita una quintalata di articoli sulla sua non più accettabile realtà e sulle sue spesso inquietanti performances. Lo sciopero dovrebbe cessare solo con la soluzione del problema in sede legislativa, non giurisprudenziale (inutile e in conflitto d’interessi)! A fare schifo è la legge (la legalità) che consente le porcate di cui ti lamenti! Anche l’appello al CSM è ridicolo e corrivo: è come per le pecore raccomandarsi ai genitori del lupo per essere protette! Il CSM è l’usbergo dove l’“ultracasta” se la suona e se la canta! In questo Paese, formalmente e, forse, ancora per poco, le regole (leggi) le scrive il parlamento, anche se spesso sotto dettatura della magistratura (v. Il Messaggero, 13 dic 17: “Intercettazioni, la riforma a Natale “depotenziata” per le richieste dei pm”!). Eh già, l’indipendenza della magistratura è sacra, quella del parlamento non vale un c…! Alla faccia di Montesquieu e della sua separazione dei tre poteri! Comunque, caro Primo, se è stata la solidarietà corporativa verso i malcapitati colleghi a sollecitarti il post di sdegno, lo capisco ma allora chiudiamola qui e buonanotte. Se, invece, è stata l’“illegalità” della vicenda, ossia lo strame fatto del diritto e del segreto professionale, allora la conclusione è ovvia: ad agire illegalmente sarebbero stati il procuratore di Roma e i finanzieri da lui delegati. E tu, tutti i tuoi colleghi e le persone che non hanno il cervello all’ammasso o non campano facendo lo slalom tra i paletti del “politicamente corretto”, per interesse o magari perché “tengono famiglia”, dovrebbero gridarlo e scriverlo con chiarezza, coraggio e coerenza e non limitarsi all’indignazione di facciata. Primo, “che vogliamo fare”? Intanto, Buon Anno! Con stima.

Giovanni Cutilli

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