Esattamente 30 anni fa in Sicilia, per la precisione a Capaci, la criminalità organizzata metteva in atto l’attentato che toglierà la vita al Magistrato antimafia Giovanni Falcone. Durante la tragica strage morirono cinque persone: Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro e vi furono 23 feriti. Il ricordo di quel tragico giorno è ancora ben presente nella memoria degli italiani e caratterizzato da forti emozioni di rabbia, incredulità e tristezza ma anche di esempi e di interpreti della giustizia dello Stato come Luigi Savina, ex commissario della Squadra Mobile palermitana che con le sue indagini incastrò “Cosa nostra” e l’autore dell’attentato della strage di Capaci, Giovanni Brusca, il mafioso che schiacciò il pulsante per far esplodere 200 chilogrammi di tritolo. Savina è residente a Roma ma non tutti sanno delle sue origini abruzzesi, nato a Chieti il 16 maggio del 1954 ama spesso tornare. Dott. Savina grazie per avermi concesso questa intervista e dedicato del tempo ai lettori de ‘Lacerba’. Iniziamo subito con la prima domanda.
Quando e perché ha deciso di entrare nella Polizia di Stato?
A metà degli anni ’70 ero studente universitario di Giursprudenza presso la facoltà di Teramo in anni difficili per il nostro Paese. Da un lato il terrorismo interno con lo stillicidio quotidiano di “gambizzazioni” – neologismo coniato in quegli anni che indicava chi veniva ferito con colpi di arma da fuoco alle gambe – quando non vi erano omicidi o stragi come quella di via Fani, con il sequestro dell’on.le Aldo Moro e con l’uccisione di cinque appartenenti alle forze dell’ordine che lo scortavano. Dall’altro lato la criminalità organizzata che conduceva vere e proprie guerre tra clan storici e clan emergenti, in modo particolare nel sud Italia – Palermo, Catania, Reggio Calabria, Napoli – mentre il centro ed il nord del Paese erano colpiti da un terribile reato, il sequestro di persona e le piazze erano inondate dalla eroina, quella del “buco”, che ha ucciso centinaia di giovani, facendone schiavi diverse migliaia, gettando nella disperazione altrettante famiglie.
Ho dunque iniziato a considerare di poter entrare in Polizia dopo il conseguimento della laurea, per essere utile al mio Paese e ai suoi cittadini a cui, anche per radicate tradizioni familiari, sono fortemente legato. Dopo la laurea, senza tralasciare il piano B che nella vita è fondamentale – lo dico senza paternalismi per i più giovani – ho iniziato a frequentare uno studio legale, conseguendo poi il titolo di avvocato, partecipando però al primo concorso utile per commissario di Pubblica Sicurezza e avendo la fortuna di vincerlo. Sono stato assegnato alla Questura di Venezia assieme ad altri sei colleghi di corso, numero significativo perché Venezia e la sua provincia erano colpite per l’appunto dalle ultime frange del terrorismo interno – pochi mesi prima della nostra assegnazione il 12.5.1980 le BR avevano ucciso a Mestre, in un agguato, il dirigente dell’antiterrorismo Alfredo Albanese e dal clan malavitoso della Riviera del Brenta, capeggiato dal noto Felice Maniero, attivo in qualche sequestro di persona, in alcuni omicidi e soprattutto responsabile di aver inondato le piazze di droga, da Vicenza sino ad Udine, passando per Padova, Venezia, Treviso senza trascurare le località turistiche venete e friulane.
Ci può ricordare in breve le tappe più significative della sua carriera professionale?
Per i primi 25 anni di servizio sono stato un investigatore: dirigente della antirapina e della omicidi a Venezia (1980 – 1989); dirigente della omicidi a Palermo (1989 – 1991); dirigente della squadra mobile di Pescara (1991 – 1994); dirigente della Squadra Mobile di Palermo (1994 -1997); dirigente della Criminalpol di Napoli; dirigente della Squadra Mobile di Milano (2000 – 2004). Nel 2000 sono stato capo del contingente di Polizia in Albania per aiutare quelle forze dell’ordine. Nel 2004 sono stato nominato Questore, prima a Terni poi a Ferrara ed ancora a Padova, a Cagliari ed infine a Milano – dal 2012 al 2016 – per gestire la sicurezza di EXPO 2015. Infine, sono stato nominato vice capo della Polizia italiana sino al 31.5.2019.
Che ricordi ha di Falcone?
Ero un giovane funzionario in servizio alla “omicidi di Palermo”, quando per un breve periodo ho avuto l’onore di lavorare con il dr. Falcone che cessava dalle funzioni di giudice istruttore per assumere quelle di Procuratore aggiunto. Era una persona di grande competenza, professionalità ed onestà intellettuale a cui il Paese deve molto. Se c’è un reale regista nella sconfitta di “Cosa Nostra”, quello è certamente Giovanni Falcone. Intelligenza, capacità, equilibrio, rigoroso rispetto della legge, stratega dell’azione giudiziaria di contrasto. Al ministero della Giustizia, nell’ultimo anno della sua vita ha ideato la Procura Nazionale Antimafia – affinché la risposta dello Stato non fosse parcellizzata – la legge sui collaboratori di giustizia; il sostegno ai progetti dei corpi specializzati delle Polizie per affrontare la criminalità organizzata: la DIA, lo SCO della Polizia di Stato, il ROS per l’Arma e il GICO per la Guardia di Finanza. Sono questi gli strumenti ideati oltre trent’anni orsono e che consentono a tutt’oggi una elevata risposta.
Come venne arrestato? Che ricordi conserva di quel giorno?
Era il 20.5.1996. Qualche giorno prima avevamo tratto in arresto un altro capo mandamento venendo a sapere di una fornitura di schede telefoniche a Brusca. Riuscimmo a risalire ad una sequenza di numeri di schede telefoniche ponendole sotto controllo. Da una di queste individuammo la voce di Brusca. Di lì parti la localizzazione sino ad arrivare ad un piccolo paese di villeggiatura agrigentino: Cannatello. La grande abilità degli uomini e delle donne della Squadra Mobile di Palermo che permearono il territorio senza creare il minimo allarme condusse ad individuare l’abitazione. Un altro stratagemma – un’ accelerata di una moto a cui era stata forata la marmitta – mentre era in corso una telefonata, diede la certezza che in quel momento Brusca era in quella casa. L’intervento e l’arresto. Il rientro a Palermo in corteo tra gli applausi dei cittadini che erano dalla parte della legalità, mentre i TG – proprio quella sera era in onda un film sulla vita di Giovanni Falcone – inviavano notizie ininterrottamente. Lo Stato dei cittadini che vince. Questo il ricordo più bello.
Chi è Brusca ai suoi occhi?
Con Brusca, assieme a Claudio Sanfilippo allora capo della Catturandi, oggi questore di Sassari, svolgemmo in gran segreto colloqui investigativi. Brusca è stato responsabile della strage di Falcone e di un altro centinaio di omicidi, soprattutto quello terribile del piccolo Di Matteo, figlio di un collaboratore di giustizia, ucciso su suo ordine. È stato anche quello che da bambino portava il cibo a latitanti del calibro di Totò Riina e Bernardo Provenzan. Non bisogna ricorrere alla sociologia per scoprire gli effetti nefasti prodotti da certe frequentazioni su di un adolescente. Nel segno del dr. Falcone, Brusca è stato un importante collaboratore: se altri latitanti sono stati catturati e dinamiche importanti di “Cosa Nostra” sono state disvelate, lo si deve a lui. Abbiamo seguito ciò che il dr. Falcone aveva detto: lo svuotamento di “Cosa Nostra” dall’interno. Lo Stato ha vinto quella guerra contro la mafia stragista.
L’anno scorso, il 31 maggio, Brusca avendo scelto di collaborare con la giustizia ha ottenuto gli sconti di pena previsti ed è stato scarcerato per effetto della legge del 13 febbraio del 2001. Questa decisione ha fatto discutere lasciando un amaro in bocca ai parenti delle vittime. Qual è il suo pensiero in merito?
“Umanamente è una notizia che mi addolora, ma questa è la legge, una legge che peraltro ha voluto mio fratello e quindi va rispettata”. Così Maria Falcone, sorella del giudice Giovanni Falcone, ha commentato la notizia della scarcerazione per fine pena di Giovanni Brusca. Io mi ritrovo nelle parole di Maria Falcone.
Lei è presidente del Premio Borsellino ritenuto univocamente la più importante manifestazione italiana ed europea sui temi della legalità. Secondo un sondaggio quattro su dieci sono convinti che fra i giovani sia di moda la mentalità mafiosa. Perché?
Tutte le agenzie che si occupano dell’educazione dei giovani non hanno adempiuto compiutamente ai loro compiti. La famiglia – e anch’io come adulto ho la mia parte di colpa – la scuola, le organizzazioni laiche e cattoliche, tutti dovevamo forse meglio svolgere le funzioni di educatori. Qualche ragazzo senza valori dopo la cattura di Riina (15.1.1993) ha creato club e social di sostegno. Al di là della povertà di quel genere di iniziative e di altre – vedi i fans di Gomorra, addolorati per la morte cinematografica di Genny o di Ciro detto l’Immortale – le nuove generazioni spesso non riescono a trovare la propria strada, si sentono figli del caso e provano ad imitare personaggi che secondo loro sono diventati “grandi” anche se lo hanno fatto nel modo più sbagliato. Un grande scrittore siciliano, Gesualdo Bufalino, diceva “La mafia può essere sconfitta da un esercito di maestri elementari”. Io aggiungo nessun adulto può chiamarsi indietro.
Che rapporto conserva dell’Abruzzo e della sua città natale Chieti?
Sono visceralmente legato alla mia città di nascita. Lì ci sono i ricordi della mia bella famiglia, dei miei più cari amici – qualcuno a me caro non c’è più – da là nascono le radici del mio modo di essere: schivo, riservato, attratto dalle cose vere e genuine e legato ai valori della mia infanzia – l’amicizia, l’educazione, la capacità di sacrificarsi, il senso del dovere, l’attenzione verso gli altri. Quasi ogni anno ascendo al Monte Amaro e al Gran Sasso. Quando da Palermo rientravo, prima a Roma e poi verso l’Abruzzo, prendevo un caffè sotto il Velino – terza vetta d’Abruzzo e degli Appennini – per respirare finalmente di nuovo il profumo della mia terra.
Remo Di Leonardo