di Vincenzo Amato
Mi chiamo Vincenzo Amato perché Vincenzo Amato si chiamava mio nonno; ovvio per il cognome, quasi categorico, a quei tempi, per il nome proprio che quasi sempre si trasmetteva al nipote, o alla nipote nel caso di differenza di genere. In contesti territoriali anglosassoni, per connotare le due persone oggettivamente diverse, si sarebbero attaccate, a nome e cognome di ognuno, le due paroline magiche di senior e junior, che facevano tanta tendenza e ancora vagano nel nostro immaginario collettivo a causa dei tanti film hollywoodiani che le contenevano. Noi Vestini, radicati caparbiamente alla nostra terra come il popolo nostro avo che provò invano a opporsi, appunto in modo caparbio, finanche ai romani antichi, mai useremmo in questi casi termini di tal genere e preferiamo da sempre parole e locuzioni più semplici per distinguere due persone che si chiamano allo stesso modo sia nel nome che nel cognome: quelle più ruspanti come, appunto, lu sciòre e lu nipòte.
Vincenzo Amato sciòre era un musicante di banda; musicante come lui sottolineava e non musicista, laddove se un musicante può essere naturalmente anche un musicista, non sempre un musicista può vantarsi di essere un musicante. E non si faccia l’errore di considerare un musicante come un figlio minore, perché se il musicista è certamente un grande professionista del mondo meraviglioso delle note, il musicante ne è un artigiano, un operaio, uno da trincea insomma. Me lo diceva sempre mio nonno che la banda, quando ci si comincia a suonare da giovanissimi com’era capitato a lui, t’insegna tutto e lo fa senza troppi convenevoli, in modo diretto, se serve anche a brutto muso; perché, se a un certo punto devi suonare in piazza, devi saper suonare bene, e chi ti sta insegnando si può permettere anche di darti qualche sonora bacchettata sulle dita se quelle sbagliano troppe volte a schiacciare i tasti giusti del clarinetto che hai fra le mani. Vincenzo Amato, lu sciòre, proprio il clarinetto suonava nella gloriosa banda di Città Sant’Angelo che, sempre a suo dire, aveva girato ai suoi tempi mezza Italia e forse anche di più.
La banda di Città Sant’Angelo, quando suonava le marcette a passo cadenzato per le strade del paese, oltre a rappresentare causa di gioia per tutti i cittadini, era morivo di sommo entusiasmo per due categorie precise di persone, diametralmente opposte quanto a età: quelle un po’ più grandi degli amatori esperti del genere che la seguivano in coda cadenzando lo stesso passo dei musicanti e poi i bambini che la precedevano saltando da tutte le parti e facendo un baccano che a volte sovrastava armonia e melodia delle note stesse. Io, categoricamente fisso all’interno di quest’ultimo gruppo, cercavo sempre di non dare troppo in escandescenza, per questo preso in giro dai miei coetanei, un po’ per pudore ma fondamentalmente per timore di lu sciòre che, nella prima fila dei musicanti schierati e marcianti, quella dei clarinetti appunto, apriva il drappello di quel golfo mistico viaggiante. Nonostante la forza travolgente delle marcette, quella della mattina era in realtà una passeggiata, perché era alla sera che si cominciava a fare sul serio, quando la banda mutava pelle e con essa il nome, diventando Concerto Bandistico, e si piazzava coi suoi musicanti sul palco, sulla cassa armonica meglio conosciuta come cascia ‘mbrinete nel dialetto locale, per affrontare, nel silenzio più totale della piazza piena, i brani operistici più disparati, da Verdi a Puccini senza dimenticare le leggiadrie del Barbiere rossiniano.
Era lì, in quei momenti, che si liberava l’espressione del talento dei musicanti: dai virtuosismi dei clarinetti di lu sciòre e di suo cognato Pasquale detto Solfare all’impeto del rullante magistralmente suonato dal mitico Cavaliere Rucchitille, dal languido suono del sassofono di Giacuminucce all’appassionata melodia dei pezzi solisti che usciva dalla tromba dell’indimenticabile Ermete; un suono che pareva una voce umana piangente e che faceva piangere davvero buona parte degli ascoltatori del pubblico. Non inferiore ovviamente era il coinvolgimento esternato da alcuni camafri, figuranti fra i bandisti totalmente ignari di musica e assoldati, a volte, per fare numero, con lo strumento a fiato categoricamente chiuso e che, forse proprio perché tali, nell’esecuzione mettevano una passione teatrale spesso più espressiva di quelli che suonavano davvero.
Vincenzo Amato sciòre, musicante di banda, ha lasciato molto nel bagaglio dei miei ricordi e nel contempo anche qualcosa di materiale che conservo come un tesoro: le partiture di marce e brani d’opera per i vari strumenti, che scriveva con pennino e inchiostro e una calligrafia minuta sul pentagramma che neanche quelle stampate sono così ordinate; le partiture complete di marce bandistiche composte da lui, nei momenti in cui veniva fuori anche il musicista, dai titoli per me indimenticabili (Maria Pia, I due sciuponi, Ritorno a Picciano per citarne alcune); il calamaio, le penne d’oca e ancora tanta carta pentagrammata ingiallita e di nobile fattura; e poi, naturalmente, il suo vecchio clarinetto, non più funzionante ma incommensurabile simbolo di memoria, splendente e pregno, nelle sue viscere, di chi sa quali antichi miasmi spinti dentro per anni dal soffio del fiato fra ancia e bocchino, miasmi invisibili ma certamente esistenti, al pari delle correnti telluriche segrete descritte nel Pendolo di Foucault di Umberto Eco. Gran belle persone i musicanti di banda, tutti; capaci di regalare l’entusiasmo di un mondo musicale popolare e popolano ma altrettanto alto nella sostanza, un mondo di cui poco rimane e che s’è andato perdendo fagocitato dal formalismo e dal conformismo che ha toccato anche questo campo. Persone di sostanza i musicanti di banda, capaci di declinare la soave leggiadria artistica e nel contempo essere sempre pronti agli eccessi della bisboccia e del sano divertirsi, preferibilmente attorno ai tavoli di una cantina ben fornita dopo avere suonato. Persone vere i musicanti di banda, che hanno fatto la musica perché la sapevano, che fanno la musica perché la sanno.
Con tutto il dovuto rispetto per tutti gli altri, perfettamente riconoscibili in una magnifica citazione del buon Luciano Pavarotti: “Chi sa fare la musica la fa, chi la sa fare meno la insegna, chi la sa fare ancora meno la organizza, chi la sa fare così così la critica”.