COVID 19 E LA SFIDA ALL’INDUSTRIA DELLA MODA
Ne parliamo con Antonella Bompensa, loretese doc, Direttore Generale della Moorer

Dopo Anna D’Aquino e le sue produzioni in canapa, il nostro focus è con un’altra operatrice del settore della moda: Antonella Bompensa. Seppur da mercati di produzione differenti le conclusioni sembrano condurre alle medesime direttrici per il futuro: etica, tempi giusti e più cura all’ambiente

Sfilate a porte a chiuse trasmesse in live streaming e in diretta dal profilo Instagram e dalla pagina Facebook delle case di moda. Giorgio Armani e Laura Biagiotti hanno concluso la Milano fashion week così, senza pubblico. Del resto  l’appuntamento italiano con la moda era partito già con una palpabile ansia da contagio, tra disinfettanti distribuiti dai brand e smancerie nemmeno accennate tra gli ospiti. E se la moda si sa, è da sempre fiore all’occhiello della nostra bella Italia che partorisce gusto ed esporta lusso in tutto il mondo, è d’obbligo, a questo punto, porsi qualche domanda su cosa stia accadendo ad una delle voci più importanti dell’economia italiana che, tra abbigliamento, tessile, pelletteria, occhiali e gioielli, nel 2019, è arrivato a produrre ricavi per quasi 90 miliardi di euro e a dar occupazione a circa 600.000 addetti. 

Appassirà il fiore o riuscirà a mantenere il suo profumo ancora a lungo?

Ne parliamo con Antonella Bompensa, originaria di Loreto Aprutino e residente a Milano  da 20 anni, da quando la caparbietà della sua mente brillante la portò a volersi confrontare con un contesto laborioso di cui annusava il forte fascino e per il quale non ha mai risparmiato nemmeno un giorno del suo impegno. Oggi Antonella è direttore Generale della Moorer, italianissimo brand di piumini e capi spalla presente in tutti i mercati del lusso.

La raggiungiamo al telefono durante il primo weekend di rientro a Milano, dopo due mesi di isolamento nelle campagne venete di Castelnuovo del Garda dove ha sede la sua azienda, mesi durante i quali, lei per prima, giramondo curiosa ed instancabile, è stata attraversata da un cambiamento di quelli netti, di quelli che ti riportano all’essenziale o, come preferisce dire lei, che ti impongono la resilienza.

Ma come funziona la moda, Antonella, quali sono i tempi di questa filiera affascinante e complessa?

Il settore della moda, inteso come quello di alta gamma, ha dei tempi di preparazione delle collezioni e di produzione delle stagioni molto lunghi, si parla di oltre un anno, tanto che sin da oggi, si comincia a pensare alla collezione autunno/inverno 2021. Questo perchè il ciclo produttivo, basandosi sul venduto, è completamente invertito rispetto al manifatturiero classico. Per esempio, se la Barilla per preparare i pelati, prima li pensa, poi li industrializza, in seguito li  produce per poi consegnarli nei magazzini di chi li dovrà vendere al cliente finale, nella moda funziona esattamente all’opposto: io prima penso il prodotto, poi creo la cosiddetta collezione, in seguito organizzo la campagna vendita in cui invito i miei clienti – che poi sono i negozianti – e, sulla base degli ordini che ricevo in quell’occasione, organizzo la mia produzione per poi trasferirla ai negozi.

Quali scossoni ha procurato il Coronavirus a tutta questa organizzazione?

L’epidemia ha impattato a tutti i livelli ed ha congelato l’intera sequenza creativa e produttiva dei capi. Questo perché la moda è una industria che ha cicli stagionali ricorsivi che ripartono ogni sei mesi, ognuno con stadi di avanzamento diversi, per cui, mentre ci si trova a vendere fisicamente un capo nei negozi, si sta contemporaneamente lavorando al prodotto successivo anzi ai successivi due.

Pensa che quando è arrivato il Coronavirus la nostra situazione era più o meno questa: in termini di creazione del prodotto, noi stavamo preparando la primavera/estate 2021, a livello di produzione avevamo cominciato già a produrre l’autunno inverno 2020/2021 la cui campagna vendita si era da poco conclusa, e contemporaneamente, nei negozi, stavamo finendo di consegnare tutta la primavera/estate 2020.”

Qual è stata la difficoltà più grande a tuo parere?

La difficoltà più grande è stata che al blocco della produzione è corrisposta la chiusura dei negozi fisici che ora si ritrovano con un’enorme quantità di merce invenduta della collezione primavera/estate 2020. Questa paralisi ha messo in discussione anche tutte le vendite della primavera/estate del prossimo anno che sarebbero dovute partire entro maggio, e data la chiusura delle fabbriche, è stata compromessa anche la tempestività delle consegne dell’autunno/inverno 2020 che dovrebbero partire entro giugno e luglio prossimi. La situazione è ancor più grave per quanti vendono i loro prodotti in modo diretto – ovvero tramite negozi di proprietà – perché, oltre alle perdite subite dalla cancellazione di molti ordini, questi hanno continuato a dover sopportare anche i costi di affitto e le spese connesse al mantenimento dei propri negozi. Gli aiuti pubblici hanno riguardato i costi del personale e i mutui, ma gli affitti vanno negoziati con i proprietari che ovviamente possono concedere o meno delle dilazioni/sconti.

Il fatturato delle nostre aziende ha registrato un azzeramento dei ricavi a marzo/aprile e secondo le stime di Federazione Moda Italia, con il protrarsi dell’emergenza, non esistendo certezze, si prevede per il 2020 un calo di almeno il 50% degli incassi. In questo drammatico contesto chi è più a rischio secondo te?

A mio parere chi avrà la peggio saranno le categorie più deboli: le piccole aziende che, magari, non erano così solide neanche prima ma stavano lavorando sodo per crearsi un futuro e probabilmente, chissà, ne avrebbero avuto uno, rischiano pesantemente anche tutti i rivenditori al dettaglio che hanno molta merce in negozio, così come coloro che hanno le attività produttive in Cina e, avendo subito un drastico blocco di due mesi, potrebbero andare in ritardo con le consegne. Nel frattempo, per chi produce all’estero i costi di trasporto sono drasticamente aumentati e vanno ad erodere il margine di prodotto. Questi si potrebbero trovare nella condizione di dover ripensare tutta l’intera catena di distribuzione e non è affatto facile!

Provo ad allargare lo zoom  oltre i due poli dei negozi e delle aziende  e penso all’effetto domino che il crollo di questo sistema ha causato su tutte le categorie professionali che dipendono da quel mondo, ne sono dentro – operai, stilisti emergenti, giornalisti, fotografi, dipendenti di riviste di moda, modelli e influencer di tutto il mondo. Si tratta di milioni di persone provenienti da decine di paesi diversi, tutti ugualmente costretti a doversi reinventare in una realtà che risponde a regole completamente diverse e che manifesta esigenze totalmente nuove. Far ripartire il mondo delle imprese significa rimettere in moto questi settori secondari specifici.

Ci sono piani di recovery messi in atto dalle aziende?

Con magazzini strapieni che non lasciano spazio per sistemare nuovi arrivi e, dato l’elevato costo di una campagna vendite, per lo più le aziende hanno attuato politiche di “contrazione”. Hanno ridotto sia le proposte presentate in campagna vendita – forse l’anno prossimo verranno rispolverati i capi di quest’anno – e sia la quantità dei pezzi messi in produzione, poiché la cancellazione di moltissimi ordini lascia presagire un brusco calo delle vendite anche per il prossimo autunno. A livello finanziario si sta attingendo alle misure di sostegno messe in campo dallo stato: dalle garanzie sui prestiti, alle misure di sostegno al reddito per i liberi professionisti, e sono moltissime le aziende che hanno già fatto ricorso alla cassa integrazione della durata di nove settimane e che forse sarà prolungata di altre nove. Diverse di loro, come la mia, consapevoli delle dinamiche dell’INPS, per non penalizzare i propri dipendenti, hanno optato per anticipar loro, di tasca propria, gli stipendi.

Pur se in difficoltà, l’industria della moda ha voluto dare un grande messaggio contribuendo alle misure di sostegno all’emergenza sanitaria. Sappiamo che anche la tua azienda ha dato il buon esempio.

Si, un fornitore cinese, conoscendo la situazione italiana, ci regalò un pacco di mascherine da usare in azienda e fu così che al mio capo venne l’idea di velocizzare il processo di importazione utilizzando i nostri canali privilegiati con la Cina, per far arrivare in Italia quante più mascherine possibile da destinare agli ospedali e agli enti che, per forza di cose, hanno meno libertà d’azione e sono meno abituati ad avere a che fare con dogane e procedure amministrative.Tantissimi big della moda hanno dato il buon esempio devolvendo a favore della ricerca, della costruzione di impianti ospedalieri e dell’acquisto di nuove attrezzature. Giorgio Armani, ad esempio, è stato uno dei primi a donare 1 milione e 250 mila euro a favore degli ospedali San Raffaele, Luigi Sacco di Milano, Spallanzani di Roma e protezione civile.

A proposito di Armani, che ne pensi della sua lettera al mondo della moda?

La lettera è davvero bella, probabilmente Armani ha interpretato il pensiero di molti ma la verità è che in pochi hanno le spalle tanto larghe da potersi permettere una riflessione così impegnativa di ritorno alla lentezza e al concetto di una eleganza senza tempo.In questi ultimi anni abbiamo vissuto con l’obiettivo di comprimere i tempi sotto ogni aspetto al fine di assecondare la freneticità di una vita che ci bombarda di stimoli e ci costringe a correre. Ci hanno fatto credere che aspettare un anno per avere un capo – da quando lo si concepisce a quando lo si ha in negozio – sia una politica perdente perché può significare non riuscire ad intercettare i gusti di quel momento e, così come abbiamo consumato con velocità prodotti, relazioni ed esperienze, altrettanto abbiamo chiesto alla moda di divenire “fast”, per poterci offrire sempre una enorme gamma di prodotti che, lungi dall’essere long lasting, soddisfano solo il capriccio di un attimo.

Ti riferisci al fast fashion? Che pensiero hai a riguardo?

Le catene del fast fashion – quelle che vendono abbigliamento economico e alla moda come H&M e Zara per esempio – hanno la loro utilità perché soddisfano l’obiettivo di intercettare un numero molto vasto di clienti. Per questo non vanno condannate, ma è doveroso per me ripensare a fondo il concetto di “eticità” e non solo come attenzione alla scelta qualitativa delle materie prime.Quando ero piccola io comperavo alla Standa e poi arrivò la Benetton, che trent’anni fa fu l’antesignano di HM o Zara, ma io compravo una maglia e un pantalone ovvero le quantità che mi servivano veramente, oggi invece acquistiamo abiti come fossero mandarini. Ed è questo approccio che, per me, dovrebbe essere ripensato alla luce di una eticità intesa anche come attenzione verso la sostenibilità ambientale e la responsabilità sociale. Pensiamo solo che la formula della sovrapproduzione “più produci, meno spendi, più guadagni” negli ultimi 15 anni è divenuta prioritaria rispetto a concetti come salute, sicurezza ed ambiente anche a costo di dover bruciare, a fine anno, enormi quantità di inventario non venduto, e tutto questo con le conseguenze inquinanti, in termini di scarti e co2, che tutti conosciamo. Io sinceramente lo trovo folle. Oltre al fatto che ritengo auspicabile che si assuma un atteggiamento etico ed attento anche alla distanza percorsa dai capi di abbigliamento, prediligendo il cosiddetto km zero, piuttosto che produzioni che dal Bangladesh poi devono tornar qui.

Cosa speri per il futuro della moda?

Vorrei che, così come ha scritto Armani, il lusso abbandonasse i metodi del fast fashion in cui è stato trascinato per via del consumismo e tornasse alla sua autenticità. Ed il lusso vero, per me, è unicità, lentezza, attesa, tradizione, artigianalità, eticità, competenza, ricerca iconografica, esclusività, professionalità, emozione, il tutto proposto con quel sano snobismo che contraddistingue il suo ricercato fascino.

Se per diverse ragioni la richiesta di un rallentamento del sistema moda, troppo inquinante e dispendioso, sembra una soluzione doverosa e sensata, dall’altra l’incertezza del futuro, le difficoltà economiche e anche il semplice obbligo di restare a casa stanno influenzando di molto la vita di noi consumatori.

Vivremo un ritorno ad un minimalismo fatto di abiti comodi e disimpegnati o, terminato il periodo di repressione, saremo spinti da una liberatoria voglia di rivincita verso il lusso e la ricercatezza?

Carolina Mincone

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