Le riflessioni personali che ognuno di noi ha formulato durante questo periodo di quarantena sono tante e si sono confrontate con le fasi di protezioni e prescrizioni contenute nei decreti legge emanati dal Governo. Basta girare lo sguardo al tempo sospeso dietro le nostre spalle per rendersi conto che quel senso iniziale di voglia di rallentamento che simbolicamente gridava dalle immagini del pane fatto in casa, dalle canzoni cantate dai balconi, dagli hashtag che imprigionavano speranze negli arcobaleni, nella fase 2 dei primi nasi fuori dalla porta, potrebbe competere, sul ring del futuro, con una selezione della memoria altrettanto insidiosa.
Non dimenticare ed elaborare il vissuto, vanificare quel fatalismo quotidiano da “Piove, governo ladro!”che ci deresponsabilizza dall’azione di volontà ed impegno, di tutti e di ciascuno.
Se la sfida contenuta nell’Agenda 2030 dell’Onu o nel Manifesto di Assisi riassumono gli obiettivi di riportare la dignità della persona al centro di qualsiasi processo di pensiero e di trasformazione economica, all’equilibrio tra sostenibilità e progresso, c’è qualcosa che noi possiamo fare adesso, in primis nel nostro ruolo di consumatori. Ed uno dei settori sul quale vorremmo concentrare l’attenzione è quello della moda, perché uno dei più colpiti dagli effetti della pandemia ma anche il secondo più inquinante dopo quello petrolifero.
Anna nel suo laboratorio di Candia Lomellina (PV), indossa mascherina e foulard Adatelier in canapa e seta
Queste intenzioni trasferisco nell’incontro con Anna D’Aquino, fashion designer del mercato etico della moda: avviene, come da prassi consolidata, in collegamento da remoto, lei da Candia Lomellina in provincia di Pavia, noi da Loreto Aprutino, è una delle prerogative più belle che l’isolamento ci ha fatto scoprire, lo scambio simultaneo di pezzi di cielo dove le parole si dipanano da matassa a rete empatica.
Riavvolgiamo il primo filo fino a giungere a Milano, dove Anna cresce professionalmente a partire dagli anni ’80, dove si sposa, dove diventa mamma, dove si sazia di arte e conoscenza, dove inventa la sua storia con la caparbietà tipica di chi sa che, ciò che vuole lo scoprirà vivendo mentre quello che non vuole gli è chiaro da sempre. In mano ha un diploma in design e comunicazione visiva conseguito all’Istituto Statale d’Arte alla Villa Reale di Monza, quella feconda area della Brianza dove il design interpretò l’artigianato come ponte tra impresa e società e la rese idea internazionale.
“Era sicuramente una scuola all’avanguardia per quei tempi, voluta dai grandi visionari della grafica e del design e appoggiata dalla lungimiranza dei manager di alcune imprese che credevano nel ritorno economico e morale del supportare la formazione. Io stessa ho avuto come docente A.G. Fronzoni e sono quei maestri che cambiano il tuo sguardo sulle cose”
Gioca, inventa, copri, scopri
Quando è arrivata la moda?
Forse c’è sempre stata. Fin da piccola disegnavo e cucivo i vestiti per le mie bambole, poi ho fatto anche la modella ma la vera scintilla si è accesa nel 1998, quando ho incontrato Gloria Ramirez Cortes, una stilista colombiana che era stata modellista presso la Maison Chanel e creava vestiti con le fibre naturali, in particolare la canapa.
È come se più sfere fossero entrate nella stessa orbita perché il senso estetico che avevo sviluppato con i miei studi, la passione per gli abiti ed il rispetto per le problematiche dell’ambiente e della ecosostenibilità, che si era accentuato con la nascita dei miei figli, mi ha portato, nel 2001, ad aprire un negozio di abiti realizzati esclusivamente con filati naturali, La posteria in viale Monza, che poi trasferisco a Porta Venezia. Nel 2003 lancio la mia linea Canvas, tutta realizzata in canapa e per 10 anni è stata un punto di riferimento nel mercato della moda sostenibile. Un sogno che si realizzava coniugando eleganza, etica ed un pizzico di poesia.
Come si fa a soddisfare il senso est-etico e po-etico attraverso un abito?
Il senso est-etico, fondamentalmente, non tradendo se stessi: un giorno per curiosità, andai in un laboratorio di sartoria cinese per sapere quanto mi sarebbe costato cucire 300 T-shirt, il ragazzo seduto alla macchina chiese a me di fare un prezzo, insistetti nel sapere i suoi costi. Tentennando mi preventivò un 1 euro a capo. Me ne andai lasciandolo a bocca aperta. Era troppo poco. Quando qualcosa costa troppo poco hai l’obbligo di chiederti quanto resta in tasca a chi la fa. Quando costa troppo poco c’è anche poca cura nel manufatto. Quando indossi un abito realizzato in canapa, ad esempio, devi poterlo raccontare in tutte le sue fasi.
Milano, Anna Modella nel 1983
Ed io sono tutta orecchie
Il tessuto di canapa ha delle proprietà incredibili: è un bio termoregolatore, quindi caldo d’inverno e fresco d’estate, resistente ed impenetrabile ai i raggi UV fino al 95%, anallergico, assorbe gli odori del corpo per cui non sentirai mai quel lezzo sgradevole dei tessuti acrilici ed è molto isolante tanto che viene utilizzato anche in campo edile o nell’arredamento delle barche. Indossi sulla pelle il respiro della natura, la differenza la percepisci e la tocchi.
E la coltivazione che impatto ha?
La pianta è molto robusta, a basso impatto energetico perché non necessita di tanta acqua, non ha bisogno di pesticidi e permette la riqualificazione dei terreni grazie a radici lunghe e grosse che non solo eliminano le piante infestanti ma consentono accumulo di carbonio. Considera che ha una resa eccezionale, molto più di altre quindi la produzione della canapa potrebbe essere una rilevante risorsa per l’agricoltura ed un’alternativa alla dismissione delle campagne.
Perché, allora, non si è più investito sulla sua produzione?
Credo per una sorta di pregiudizio legato alla provenienza dalla stessa famiglia della canapa indiana, ovvero la marijuana, ma quella di cui parliamo e da cui ricaviamo la fibra è la canapa sativa che ha un concentrato di THC pari a 0,5 per cui non potrebbe mai essere usata come sostanza psicotropa. L’Italia, fin dopo la fine della II guerra mondiale era il secondo produttore al mondo di canapa, poi arrivò il cotone americano e piano, piano, sia per quel pregiudizio avvalorato da divieti legislativi, sia per la mancanza di investimento negli impianti di lavorazione, le piantagioni sparirono.
Che differenza c’è con il cotone?
Di entrambe le piante esportiamo i semi ma la pianta del cotone è molto più impattante perché ha bisogno di tanta più acqua rispetto a quella della canapa. Bisogna porre attenzione al fatto che trovare scritto cotone 100% non è sinonimo di purezza perché un po’ di elastham, derivato del petrolio, potrebbe esserci in quanto non è obbligatorio dichiararlo e non è obbligatoria la tracciabilità delle fibre.
Il prezzo potrebbe essere una prova?
Vale il discorso di prima, se costa troppo poco e non è tracciata la provenienza qualche dubbio sorge. Una prova pratica sarebbe quella di bruciare il filo: i fili sintetici prendono fuoco subito, non si spengono rapidamente, la cenere si riduce ad una pallina nera che puzzerà di plastica bruciata.
Milano, Anna posa con le sue creazioni, 2013
Parliamo del senso poetico degli abiti in fibre naturali, prima Canvas Milano oggi Adatelier, come si risolve l’esigenza di aver un “armadio” variegato ed ecosostenibile?
Io sono partita da una tavolozza di colori che rispecchiasse le quattro stagioni e le nuances che si colgono nella natura al passaggio dell’una all’altra. Poi, essendo, un po’ una “pittimina” come dicono i miei amici, ho voluto andare a fondo sulle esigenze delle donne che vogliono cambiare spesso, avere stile, essere eleganti ma anche comode per affrontare le mille incombenze quotidiane. Ho fatto della mia linea un vero armadio di capi che possano essere intercambiabili e sovrapponibili ed essendo la canapa molto duratura, non rendere quei capi soggetti a scadenza. Quindi, ogni anno, usando gli stessi colori, le mie clienti possono trovare magari un blazer che va benissimo con la canotta acquistata l’anno prima o con i pantaloni di tre anni fa. L’etica è nell’aggiungere un capo non sostituirlo!
Nel 2018 Anna si prende una pausa a causa di una malattia che le ruba tempo, non certo creatività e passione: nel 2019 un nuovo progetto rinasce con lei nel piccolo borgo tra Lombardia e Piemonte, Adatelier riparte da dove si era interrotta Canvas, questa volta in un terra ricca di tradizione tessile e di ricerca.
Poi il Covid 19 blocca tutto e tutti ed ancora una volta lei trae insegnamento dalla natura che si flette, si adatta, muta alle stagioni impetuose ma mai si ferma.
Servivano mascherine e tu hai cominciato a realizzarle, in canapa e seta. So che stanno riscuotendo un successo incredibile tanto stai avendo degli ordini anche dall’estero?
Si, inizialmente, quando era complicatissimo trovarle, come tanti artigiani, mi sono messa al servizio della comunità per creare e permettere l’utilizzo di questa forma di protezione. Poi tante persone hanno cominciato a richiederle e così di nuovo la mia creatività si è rimessa in moto e ho pensato di abbinare la canapa alla seta e di creare anche degli accessori in pendant come sciarpe o fasce per la testa che possano diventare scalda collo. Per molto tempo avremo bisogno di questa protezione nelle nostre passeggiate, andando a fare la spesa, frequentando luoghi pubblici e sulle nostre labbra meglio poggiare qualcosa che limiti il disagio del respiro ostacolato.
Anna, tu sei uno dei tanti attori di un mercato di moda etica che sta crescendo sempre di più, soprattutto tra i giovani. Siamo ad un momento cruciale in cui sempre più dovremo obbligarci a capire che è possibile contemperare il bello, il buono e un futuro sostenibile per le generazioni future, come possiamo trovare un equilibrio tra globalizzazione e rispetto dell’ambiente?
A cuore direi qualità invece di quantità, evitare questa sovrapproduzione che è superiore ai i fabbisogni reali e crea un surplus di inquinamento. Va da sé che la qualità richieda più tempo e più manodopera ma il ri-equilibrio ci permette nel periodo lungo di avere effetti benefici sulla salute e sull’ecosistema.
E i numeri sui quali riflettiamo con Anna prima di spegnere i nostri monitor sono inquietanti: gli abiti che eccedono la vendita vengono distrutti o bruciati per lasciare spazio a nuovi cicli di produzioni, si parla di miliardi e miliardi di capi di abbigliamento ed è un fenomeno che non riguarda solo i brand delle grandi multinazionali come H&M ma anche firme di alta moda come ad esempio Burberry che, notizia riportata da Times, nel 2018 ha bruciato più di 30 miliardi di invenduto.
“Ha ragione Giorgio Armani, è immorale, non si può lavorare così, bisogna togliere il superfluo e ridefinire i tempi”
Adesso o mai più.
Sabrina De Luca