LA CONQUISTA DELL’ISOLA FELICE

“Avevamo acchiappati un paisi di Chieti in manu”. Chi parla è Giuseppe Graviano capo mandamento del quartiere Brancaccio Ciaculli di Palermo, condannato per le stragi del ’92 – ’93 e accusatore di Silvio Berlusconi.

Infiltrazioni che troverebbero conferma nelle indagini compiute nel corso degli anni sul suolo abruzzese. Black Jack, Carpe diem, Piramide, Histonium, Isola Felice, le inchieste che accenderanno i riflettori su un sistema ben radicato nel territorio e fatto di minacce, intimidazioni, attentati, riciclaggio, corruzione, infiltrazioni negli appalti.

Quella sicula non è l’unica presenza registrata dalle forze dell’ordine. La Dia, nella relazione del primo semestre 2017, conferma la permeabilità della regione agli interessi dei vari sodalizi, anche se non strutturalmente presenti. ‘Nrangheta, Camorra e Cosa Nostra si sono divise il territorio.

Gli investigatori hanno individuato soggetti legati alla cosca Morabito – Palmara – Bruzzaniti originaria di Africo (RC), alla famiglia siciliana dei Marchese di Messina, ai Ferrazzo e al clan camorristico dei Mallardo.

La storia criminale dell’Abruzzo ha in realtà radici profonde. Reti neofasciste, cellule della banda della Magliana, potenti famiglie rom e logge massoniche, si alternano nel tempo. L’estensore del documento apocrifo con il quale si annunciava la morte di Aldo Moro per mano delle Brigate Rosse, passato alla storia come il falso comunicato numero 7 del Lago della Duchessa, fu l’abruzzese Antonio (Tony) Chicchiarelli, falsario collegato alla banda della Magliana e ai servizi segreti. Un pullulare di militanti e fiancheggiatori che ha consentito alle organizzazioni malavitose di trasformare la regione in feudo dove attuare estorsioni, riciclaggio e usura.

La deriva espansionistica della mafia inizia negli anni ‘90. La necessità di reinvestire i capitali di provenienza illecita le consentono di superare i limiti territoriali. Una mafia che non spara più, capace di insinuarsi nell’economia legale e diffondersi come un cancro. Un’organizzazione che abbandona propositi stragisti per imboccare la silenziosa via degli affari.

Un’espansione impossibile senza l’ausilio dei cosiddetti colletti bianchi. Imprenditori, funzionari e politici, operatori di quella zona grigia, dove labile è il confine tra lecito ed illecito. Proprio in quegli anni molti comuni abruzzesi appaltano la gestione dei rifiuti a Gaetano Vassallo, uomo d’affari vicino ai casalesi, a Gaetano Graci e Carmelo Costanzo, imprenditori catanesi, protagonisti del celeberrimo articolo “ I quattro cavalieri dell’apocalisse” che costò la vita al giornalista siciliano Giuseppe Fava.

I primi arresti per il 416 bis risalgono al 1993. Lo ricorda il capo della Mobile di Pescara, Luigi Savina. “Un’ipotesi accusatoria che resse fino in Cassazione, l’isola felice abruzzese non è mai esistita”. La commissione Scalia descrive la regione come di grande appetibilità economica. Luogo ideale dove reinvestire i capitali provenienti dal narcotraffico, le sue montagne sono un comodo riparo per chi sfugge alla giustizia o a regolamenti di conti. Gli Schiavone, i Franzese, gli Spera, i Gionta, gli Zagaria, i Bidognetti e persino uno dei maggiori ricercati dell’Fbi, Diego Leon Montoya Sanchez, avevano scelto la regione come rifugio e deposito dei propri investimenti.

Abruzzo terra di omicidi irrisolti, patria di illeciti ambientali, dominio delle ecomafie, dove si sversano tonnellate di rifiuti tossici. I fiumi e mari sono contaminati al punto da essere spesso interdetti ai bagnanti. Al centro della rotta adriatica dei casalesi, secondo le dichiarazioni di Carmine Schiavone, pullula di cave dismesse, cunicoli, canali di scolo riempiti con rifiuti di ogni tipo. Non a caso una delle più grandi discariche d’Europa ha sede proprio in Abruzzo, quella di Bussi sul Tirino lungo il fiume Pescara. 38 mila metri quadri, 240 tonnellate di scorie.

In questa come in molte altre regioni, i veri protagonisti sono il negazionismo e la sottovalutazione. Novanta attentati dinamitardi nel 1992, la scoperta di un arsenale a 700 metri dal carcere di Vasto, durante la visita del giudice Giovanni Falcone e il dossier del senatore Pds, Carlo Smuraglia, un documento storico che per la prima volta analizza la presenza mafiosa nell’Italia centro settentrionale. Segnali ignorati. La mafia in Abruzzo è percepita da sempre come un fenomeno di passaggio, fatta di meridionali o stranieri. Una visione al limite del razzismo, una sorta di malformazione genetica.

Un fenomeno al quale proprio la legge e la giustizia hanno aperto le porte. I c.d. provvedimenti di confino, nati per tagliare il cordone ombelicale delle consorterie mafiose, hanno prodotto conseguenze nefaste in tutta Italia. Ma in parte anche autoprodotto. Abruzzo terra di rom dediti all’usura e al riciclaggio. Un nome su tutti, quello dei Casamonica, originari proprio di questa regione e praticamente sconosciuti prima che su di loro cadesse l’attenzione del procuratore Giuseppe Pignatone.

Le loro famiglie, assimilabili per certe caratteristiche a quelle mafiose, siedono allo stesso tavolo con le cosche, nella gestione della rotta balcanica, uno snodo importantissimo per la prostituzione e il traffico di stupefacenti. Non a caso a Pescara è stata scoperta una delle principali raffinerie d’Europa.

Diverse inchieste hanno interessato sia il comprensorio del Gran Sasso che la costa e hanno acceso i riflettori su traffici intercontinentali di droga. L’operazione Buena Ventura dello scorso anno ha sgominato l’asse tra la ‘Ndrangheta e i temibili cartelli colombiani e ha portato all’arresto di cellule operanti in Abruzzo.

SIMONA FOLEGNANI

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