Il processo alle Brigate rosse per il caso Gancia-D’Alfonso
CHI UCCISE L’APPUNTATO? PARLA IL PROCURATORE GATTI: “CONI D’OMBRA SULLA STRADA DELLA VERITA’. ACCERTAMENTI SU MORETTI E CURCIO

Lauro Azzolini, ricapitolando, è quel brigatista rosso che, ha rivelato davanti alla Corte d’Assise di Alessandria, il 5 giugno ‘75 si è eclissato dopo una cruenta sparatoria con i carabinieri di Acqui in cui perse la vita l’appuntato pennese Giovanni D’Alfonso. Era in atto da meno di un giorno il sequestro dell’industriale vitivinicolo Vittorio Vallarino Gancia che venne così liberato senza pagare il miliardo di lire richiesto come riscatto dalle Brigate rosse, all’esordio nei sequestri di persona a scopo estorsivo. Morì in circostanze mai chiarite anche Margherita Cagol, la moglie di Renato Curcio e cofondatrice delle Brigate rosse. Probabilmente per un eccesso di vendetta, venne giustiziata da un militare sull’aia della cascina Spiotta di Arzello di Melazzo, una base caldissima delle Br, dove Gancia era segregato. Ora a distanza di cinquant’anni c’è un processo cominciato il 25 febbraio che vede imputati, oltre ad Azzolini in qualità di esecutore materiale, per concorso in omicidio anche Mario Moretti e Renato Curcio, capi storici (per quanto loro grottescamente lo neghino) dell’organizzazione in quanto avrebbero organizzato e gestito l’operazione Gancia.

Ci sono diversi elementi (come anche la fonte Frillo identificata in Leonio Bozzato, un infiltrato nelle Br dal Servizio segreto, che riferì a suo tempo tutto ma lo Stato non intervenne) che lo confermano e sono stati riportati in due libri di Berardo Lupacchini e Simona Folegnani, “L’Invisibile” (Falsopiano) e “Radiografia di un mistero irrisolto” (Biblioteka), da cui ha tratto linfa l’esposto di Bruno D’Alfonso, uno dei tre figli dell’appuntato assassinato, con cui la procura della Repubblica di Torino ha dato il via nel novembre ‘21 alle indagini e alle penetranti intercettazioni col trojan che hanno incastrato Azzolini e poi all’attuale processo che si concluderà a dicembre. C’è un memoriale che Azzolini ha confessato di aver scritto come unico superstite di quel nucleo che operò per Gancia: Massimo Maraschi, un altro brigatista, venne però arrestato il giorno prima, il 4 giugno, dai carabinieri di Canelli e si dichiarò prigioniero politico; al mattino dopo, una pattuglia di Acqui diretta dal tenente Rocca (con Cattafi, Barberis e D’Alfonso) piombò con una finta casualità alla Spiotta e ne venne fuori l’inferno.

Le impronte digitali di Azzolini, almeno undici, sono state rilevate sull’originale del dattiloscritto con disegni recuperati dal Ros dell’Arma a Milano nella base di via Maderno dove il 18 gennaio 1976 venne ri-arrestato Renato Curcio, fatto evadere dalla moglie che guidava un gruppo in cui c’era anche Moretti quasi un anno prima dal carcere di Casale Monferrato, la città di Paolo Bargero, presidente della Corte d’Assise alessandrina. Azzolini confessando in aula di essere stato lui a  fuggire dalla Spiotta, non ha svelato però chi uccise D’Alfonso. Se n’è guardato bene. Rimandando al memoriale, di cui si assume l’intera paternità, in cui furono riferiti quei drammatici fatti, accusa di fatto la Cagol di aver ammazzato il carabiniere di Penne soprattutto con un colpo di pistola dall’alto verso il basso. In quella relazione infatti è scritto proprio così.

“Mentre stavamo per entrare nel primo porticato sentimmo colpi alle spalle e urla mi voltai e vidi un carabiniere che correva e la M (Mara) urlò di sparare. Tirai il primo colpo col M1, poi non uscì il bossolo e mi s’inceppò, tirammo tutti e due con le pistole e ancora quando lo vedemmo disteso la M gli tirò ancora…”. A leggerla, Azzolini gettò addosso ai carabinieri della pattuglia guidata da tenente Rocca tre bombe svizzere (Rocca perse l’occhio e il braccio sinistri), mentre gli s’inceppò il mitra “e si sapeva che s’inceppava”. I due colpi sparati dal brigatista sembrarono diretti al carabiniere in borghese (“Non era Barberis che se ne stava lassù…”, ha rivelato intercettato Azzolini), altrettanti rivolti alla 127 militare e tre quelli rimasti nella sua pistola. Azzolini, 82 anni, si dissociò nel 1987 dalla lotta armata per ottenere gli sconti di pena grazie alle norme speciali del tempo (ventisei inverni trascorsi nelle dure patrie galere per una serie di omicidi fra i quali quello di Francesco Cusani vice questore a Biella nel ‘76, oltre al caso Moro).

In ogni caso, sarebbe colpevole di concorso in omicidio. La Cagol invece non avrebbe affatto sparato: nei libri succitati, si riporta una dichiarazione resa alla stampa dall’allora procuratore della Repubblica di Acqui Lino Datovo che riferì la negatività alla prova del guanto di paraffina della consorte di Curcio. Ma nelle carte processuali dell’epoca di questo importante elemento non ci sarebbe traccia. La donna naturalmente oggi non può replicare né servirebbe riesumare il cadavere. Azzolini, difeso da Davide Steccanella, con il colpo di scena della confessione (a metà) mira probabilmente a puntare su un concorso anomalo nell’omicidio e quindi alla relativa declaratoria di prescrizione. In galera non tornerà mai, può esserne certo. Così come gli altri due ex compagni. Rischia invece il suo ricco conto in banca per un eventuale risarcimento alla famiglia della vittima. Se si è deciso a parlare, potrebbe aver influito la prospettiva di dare una via di fuga agli altri due imputati. Curcio probabilmente non conosce tutta la verità sul sequestro: il memoriale non lo ha mai soddisfatto pienamente. Il rapimento Gancia non fu un episodio marginale della storia brigatista, tutt’altro.

Il procuratore di Torino nonché Pm in aula Emidio Gatti (nella foto sopra) precisa il contesto e vuole interrogare l’82enne reggiano davanti ai giudici popolari per chiedergli anche: “Dove ha scritto il memoriale? In quale base ?”. La procura della Repubblica di Torino pensa, e tanto, anche agli altri due imputati, ossia Mario Moretti e Renato Curcio, i quali nei rispettivi libri di memorie usciti oltre trent’anni fa hanno rivelato per filo e per segno a loro volta come pensarono e gestirono quel sequestro che ebbe come risultato finale ben due morti ammazzati. Così il dottor Gatti: “Le dichiarazioni di Azzolini mi stupiscono e nello stesso tempo in un processo complesso come questo partito cinquant’anni dopo mi rendono contento. Restano però dei coni d’ombra che devono essere assolutamente approfonditi”. Come ?”Abbiamo chiesto alla corte una perizia che stabilisca di chi siano le altre impronte digitali e palmari trovate nel memoriale originale di cui almeno undici attribuite ad Azzolini. Bisogna compararle con le impronte palmari e digitali, oltre ai campioni biologici, di Moretti e Curcio, così come sulla macchina da scrivere recuperata in via Maderno a Milano e sul volante del furgone utilizzato dai sequestratori di Gancia.

 

Azzolini

 

Ci sono poi le due lettere di riscatto dove abbiamo trovato le impronte palmari di Zuffada, deceduto di recente (concorso anomalo in omicidio per lui e il Gup di Torino lo ha dichiarato prescritto n.d.c.), ma ve ne sono altre. Sulla macchina da scrivere c’è il Dna di Curcio, e quello di Moretti? Va verificato. Per me nulla è superfluo per cercare tutta la verità. Anche ripescare le perizie sulle autopsie di D’Alfonso e della Cagol”. Prossima udienza il 29 aprile: testimonierà la famiglia dell’appuntato ucciso a 45 anni, quindi la vedova Rachele ed i figli Bruno, Cinzia e Sonia parti civili assistiti dagli avvocati Sergio Favretto, Nicola Brigida e l’ex giudice Guido Salvini.

E’ appena l’inizio di una nuova storia processuale che promette altri colpi di scena. Azzolini per il caso Gancia venne prosciolto per non aver commesso il fatto nel 1987, dopo dieci anni di indagini, dal giudice istruttore Nappi di Alessandria che ereditò il caso dal collega Martinelli, deceduto. Eppure, al tempo, non solo erano vivi i testimoni oculari, in divisa e non, ma erano ben noti anche i reperti del sequestro: dalle armi utilizzate, alle impronte digitali lasciate sul furgone, sulle auto, nella cascina Spiotta. Il fascicolo è però scomparso dall’archivio del tribunale: colpa dell’alluvione del ‘94.   

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