Più responsabilità penali e di conseguenza più condanne: questo chiede l’accusa alla Cassazione da ieri al lavoro sulla tragedia di Rigopiano di quasi otto anni fa, quando una valanga travolse l’omonimo albergo in cui restarono intrappolate 40 persone di cui poi 29 persero la vita in quella prigione di ghiaccio, legno e cemento. Una storia al rallentatore è perciò quella che la procura generale, guidata da Alessandro Mancini, ha proposto ai giudici di terzo grado per valutare le otto condanne e le 22 assoluzioni emesse nel processo d’Appello su quel disastro che di sicuro poteva e doveva essere evitato. La pubblica accusa, rappresentata in aula dal sostituto procuratore generale Giuseppe Riccardi, ha chiesto un nuovo processo per l’allora prefetto di Pescara Francesco Provolo: devono essere valutate le accuse di concorso in omicidio colposo, in lesioni colpose e depistaggio per le quali era stato assolto in Appello dove invece, a differenza del primo grado, era stato condannato a un anno e 8 mesi per rifiuto di atti d’ufficio e falso. Per Leonardo Bianco, all’epoca capo di gabinetto di Provolo, condannato in Appello a un anno e 4 mesi, è stato chiesto l’annullamento della sentenza senza rinvio della sentenza impugnata e la rideterminazione della pena con esclusione dell’aumento. L’accusa vuole anche la cancellazione delle assoluzioni nei confronti dei massimi dirigenti regionali della Protezione Civile abruzzese e la conferma delle condanne dei dirigenti della Provincia Paolo D’Incecco e Mauro Di Blasio (entrambi 3 anni e quattro mesi), dell’ex gestore dell’hotel Bruno Di Tommaso (6 mesi), dell’allora sindaco di Farindola, Ilario Lacchetta e del tecnico del Comune, Enrico Colangeli (2 anni e otto mesi per entrambi). Un ricorso di oltre 100 pagine ha contestato la riduzione delle responsabilità penali, limitate invece ai soli Comune di Farindola, Provincia di Pescara e Prefettura. La Sesta Sezione della Cassazione, specializzata in reati di depistaggio, affronta invece il ricorso che mira a includere nel giudizio anche i vertici della Prefettura, esclusi dalle condanne in Appello. La Procura sostiene che l’assenza di richieste esplicite da parte degli inquirenti non può giustificare l’esclusione della responsabilità dell’ex prefetto Francesco Provolo e dei suoi funzionari. Il ricorso evidenzia la richiesta, avanzata dalla Squadra Mobile di Pescara, di documentazione riguardante l’attività svolta dal Centro Coordinamento Soccorsi (Ccs) e dalla sala operativa della Prefettura durante la giornata del 18 gennaio 2017. Si sottolinea che anche un semplice silenzio, in certe circostanze, può configurare un comportamento penalmente rilevante. Ne deriva che allora una certa attenzione è stata rivolta alle posizioni del prefetto ed anche dei massimi dirigenti regionali del servizio di Protezione Civile, tra cui Pierluigi Caputi, Carlo Visca, Emidio Primavera, Vincenzo Antenucci, Carlo Giovani, e Sabatino Belmaggio. La Procura ha criticato la sentenza d’Appello che li ha salvati, sostenendo che la mancata realizzazione della Carta di Localizzazione del Pericolo Valanghe (Clpv) e la prevedibilità dell’evento abbiano rappresentato una grave omissione. Secondo l’impostazione del ricorso, non è necessario che un funzionario possieda tutti i poteri per impedire un evento disastroso; è sufficiente che eserciti quelli di cui dispone. L’inerzia dei funzionari coinvolti avrebbe perciò contribuito al verificarsi del disastro: un comportamento definito “gravemente censurabile”. Poi, è toccato alle parti civili. Si riprende giovedì con le difese, quindi le valutazioni dei consiglieri relatori Martino Rosati e Ombretta Di Giovine e l’attesissimo verdetto in programma in serata o al massimo venerdì con le ombre della prescrizione in agguato fra otto mesi.
Berardo Lupacchini