di Giuseppe Lalli
L’AQUILA – Diciamoci la verità: il corteo della Perdonanza – sia detto con tutto il rispetto per chi vi partecipa e per la fatica di chi lo organizza –, ancorché scenograficamente attraente e tale da avergli meritato ambiti riconoscimenti internazionali, non è né storico, con i suoi anacronismi (anche se negli ultimi anni sono stati attenuati) né religioso, lontano come appare dallo spirito autentico della Perdonanza celestiniana (che è spirito di penitenza e di umiltà). È tutt’altra cosa rispetto a quegli “inni e canti” che l’eremita Pietro dal Morrone divenuto papa auspicava (una figura, peraltro, quella di Celestino V, abbondantemente saccheggiata da una pubblicistica conformistica e superficiale).
È nota la caustica definizione con la quale un celebre storico aquilano da poco scomparso liquidava la manifestazione, e le sue critiche alla Perdonanza, per come era celebrata negli ultimi decenni. Bisognerebbe recuperare l’originario senso spirituale dell’evento, come auspicava già dieci anni fa un altro storico aquilano, Walter Cavalieri, che in una nota ad un quotidiano locale del 14 luglio 2014 sosteneva fosse da rivedere l’impostazione “turistica” del grande appuntamento celestiniano:
Non un corteo, ma una processione, la Bolla portata dalla municipalità e non da fantasiosi figuranti, il coinvolgimento dei quattro quarti della città-territorio, la lettura della Bolla da parte di un chierico e non del sindaco,
Lo studioso sottolineava subito dopo che bisognava ripristinare una tradizione secolare che rimettesse al centro la sacralità dell’evento, con collaterali manifestazioni anche laiche, ma sobrie ed intonate al clima di devozione, e tali da richiamare turisti attratti da un evento unico e autentico. Va altresì ricordato che anticamente non esisteva una Porta santa e l’indulgenza veniva concessa non per uno ma per due giorni (dai vespri del 28 a quelli del 30 agosto) in un contesto di pura spiritualità: inni sacri, veglie di preghiera, ostensione delle reliquie.
In questa ottica, si potrebbe distinguere, nel tempo e nello spazio, l’aspetto ludico-turistico, da confinare in un periodo precedente, da quello religioso, superando così la dimensione scenografica e spettacolare e ripristinando una processione sacra che ripercorresse l’antico tragitto, allorché la Bolla veniva portata a Collemaggio da piazza del Mercato passando per Costa Masciarelli e Porta Bazzano.
All’interno di questa restaurata cornice devozionale, si potrebbe ridare spazio sia a momenti di conforto spirituale ai malati, come aveva intuito già negli anni ‘70 padre Quirino Salomone, sia alle associazioni di volontariato religiose e laiche che prestano assistenza morale e materiale alle tante emergenze socio-sanitarie della città.
Utopie? Visioni? Forse! Ma il Cristianesimo, che non è stato mai di moda, è l’unica utopia che vale ancora la pena di coltivare (il vero patrimonio dell’Unesco!): quel cristianesimo che in questa nostra Europa satolla e sempre più pagana si vuole cancellare.
Così com’è ai nostri giorni il corteo non si distingue da una qualsiasi manifestazione folcloristica d’epoca, ed è solo un’occasione di visibilità (già è tanto che nelle ultime edizioni la scelta della dama che porta simbolicamente la Bolla sia stata sottratta alla logica di un concorso di bellezza alla “Miss Italia”). Si avverte una contaminazione tra sacro e profano (che era coessenziale alla società medievale, ma che oggi non trova alcuna giustificazione) che urta la sensibilità cristiana, e che è espressione di quello spirito mondano che, più ancora dell’ingiustizia sociale, è distante dallo spirito evangelico.
A chi mostra, nei fatti, che “Parigi val bene una messa” (secondo la celebre frase attribuita a Enrico IV di Borbone – 1553/1610 – prima di convertirsi, lui protestante, al cattolicesimo e potersi così cingere il capo con la corona del regno di Francia), bisogna ricordare ciò che Benedetto Croce (1866-1952) rispose a Benito Mussolini (1883-1945) che lo aveva accusato, per aver dissentito dalla stipula del Concordato, di essere un imboscato della storia: cioè che “una sola messa vale molto più di cento Parigi, perché fatto di coscienza”.
Sia concesso al credente di affermare, sulla falsariga del “laico” Benedetto Croce (al di là del giudizio di merito su quei Patti Lateranensi che potevano avere una loro ragione d’essere), che una sola Perdonanza, che è fatto di fede personale, non di manifestazione collettiva, vale molto più di cento conferenze e di mille cortei, perché questione che ha a che fare con la vita eterna.
Il cristiano, del resto, è chiamato a fare la Perdonanza non una volta all’anno transitando sotto una porta sia pure solenne, ma tutti i giorni: ogni sera, nell’esame di coscienza, è sotto la porta della misericordia di Dio che deve passare. Il cristiano sa pure che la prima indulgenza plenaria l’ha dispensata Gesù, verso le ore 15 (“l’ora sesta”) di quel venerdì che precedette la Pasqua ebraica, nei confronti di uno di quei due uomini crocifissi insieme a Lui che si dichiarò sinceramente pentito delle sue colpe, al quale disse “Oggi stesso sarai con me in Paradiso”.
Che dire poi di tutta quella cornice ludica (a volte con espressioni affatto coerenti con la visione cristiana della vita) che si svolge a latere dell’importante ricorrenza? Indipendentemente dagli intenti degli ideatori e dal valore artistico delle prestazioni, si finisce per soffocare, e di fatto banalizzare, il significato eminentemente religioso dell’evento celestiniano, che dovrebbe, semmai, essere accompagnato da appropriate iniziative ecclesiali (quest’anno alquanto disattese), quali incontri con i giovani e conferenze sul profondo richiamo evangelico della Perdonanza: la salvezza offerta a tutti e la santità come orizzonte alto del cristiano, nelle condizioni ordinarie in cui si svolge la sua esistenza terrena.
La politica fa il suo mestiere e la ben oliata macchina dello spettacolo fa il suo lavoro. Ma quando i cattolici di ogni ordine e… rango cominceranno a farsi sentire un po’ di più? La Perdonanza, che resta pur sempre un evento religioso, nel rispetto dello spirito in cui la concepì Celestino V, dovrebbe rappresentare per la Chiesa un’occasione di evangelizzazione, con le sue implicazioni culturali e sociali. Se non si colgono queste opportunità rare di affermare la verità all’uomo (vale a dire il suo destino eterno, che l’indulgenza plenaria richiama) si rischia di essere testimoni passivi di questa inquietante postmodernità.