Di certo uno dei premi più attesi di questa edizione di Biennale Cinema 2021 è stato attribuito al commento più fantasioso rivolto agli effetti ansiotici provocati dalla Sindrome di Boxol, il frenetico sistema di prenotazione alle sale che ha reso difficile o impossibile la visione delle proiezioni ad accreditati ed appassionati. In realtà, tanto le aspettative sulle modalità di organizzazione della scorsa edizione sono state disattese, quanto invece sono risultate consolatorie le quantità e qualità di altissimo livello delle produzioni cinematografiche, come riflesso e sperimentazione contrapposti allo stato di compressione psicologica provocato dal periodo pandemico.
Come ogni momento storico può considerarsi il risultato di un percorso di un susseguirsi di eventi, per meglio comprendere questa Venezia 78 è necessario volgere lo sguardo ai contenuti dell’anno precedente, che estremizzava una dichiarata condizione disumana e tormentata, scoraggiando qualsiasi reazione o speranza per un progetto generale e di miglioramento futuro.
Sebbene per un anno gli animi siano rimasti congelati nell’ impossibilità di movimento fisico, la produttività del periodo ha dimostrato che la difficoltà può essere una grande opportunità: la cosciente fecondità creativa sembra essersi espansa generando una profonda ricerca verso le origini della condizione umana individuale.
È quello che appare chiaramente in numerosi film come “Madres Palalelas” di Pedro Almodòvar, “La Caja” di Lorenzo Vigas, “Old Henry” di Potsy Ponciroli, “Les Promesses” di Thomas Kruithof, “The Card Counter “di Paul Schrader,
“È stata la mano di Dio” di Paolo Sorrentino, “The Last Daughter” di Maggie Gyllenhaal, “Illusion Perdues” di Xavier Giannoli, “Kapitan Volkonogov Bezhal/ Il capitano Volkonogov è scappato“di Natasha Merkulova, Aleksey Chupov
In tutte queste proiezioni i protagonisti tentano, in modo caratterizzato, di ripercorrere il passato cercando di comprendere la loro natura più profonda (alcuni negli errori che li hanno portati alla deriva), al di fuori degli schemi schizofrenici ereditati dalla famiglia di origine, dalla società o dalla religione che li hanno guidati nella crescita: è visibile e luminoso il filo rosso che lega i significati delle proiezioni, che permette ai personaggi di cogliere una profonda necessità di conoscere e accettare la propria “vera identità” attraverso il processo del dolore, per raggiungere un punto di equilibrio da cui ricominciare. In sintesi la ricerca del passato è atta a comprendere la condizione del presente per poter avere finalmente libero arbitrio in una chiara direzione consapevole verso il futuro.
È interessante come il tema della “verità soggettiva” venga rappresentato con lo stesso significato in “Les Choses Humaines” di Yvan Attal e in “The Last Duel” di Ridley Scott, sebbene siano due film molto differenti a livello di regia e sceneggiatura; soprattutto come la stessa realtà possa essere affrontata in due momenti storici differenti: verità discutibile e sottoposta, sebbene esista un giudizio giuridico che ci governa, a quello morale della società.
Emozioni positive e negative della massa influenzano il destino delle vite umane determinandone il destino (molto spesso tragico).
La “Critica” è l’argomento che caratterizza “Ilusiones Perdues” di Giannoli di cui consiglio la visione a tutti coloro che vivono quotidianamente lo spietato mondo dello spettacolo e del giornalismo critico controllato e corrotto dalla politica, utilizzando la rispettabilità del proprio titolo per incutere timore ed avere credibilità. Uno spunto sicuramente utile di riflessione per chi ha perduto la retta via: tornate alla vostra natura e spogliatevi di ciò che non siete.
Ho amato gli entrambi discussi “Freaks Out” di Gabriele Mainetti e “Mona Lisa and the blood Moon” di Ana Lily Amirpour .
Il primo, sulla scia di “Lo chiamavano Jeeg Robot”, tratta della superficialità con cui la società emargina i soggetti “diversi” rendendo ancora più difficile il loro processo di autoaccettazione.
Entrambi i registi trasformano quello che la società considera il disadattato in un supereroe rendendo il suo “difetto” un potenziale indispensabile all’umanità intera, concetto simile ma più realistico di riqualificazione “leggibile” anche in “Aria ferma” di Leonardo Di Costanzo, generatore, infine, di maggior fiducia nelle possibilità dell’essere umano.
Nello scorrere delle immagini il messaggio di Mainetti e della Amirpour è forte: la condivisione tra persone di esperienze dolorose genera relazioni talvolta più solide rispetto a quelle genetiche.
La solitudine è solo una sensazione che si risolve con la fiducia in se stessi e nel prossimo (senza scadere nella banalità).
Nessun film comico quest’anno, purtroppo, ma ci accontentiamo dell’umorismo napoletano del meraviglioso “È stata la mano di Dio” di Sorrentino (con uno strepitoso Alessandro Bressanello) e di “Competencia Oficial ” di Gastón Duprat e Mariano Cohn, con un’inedito personaggio interpretato dalla straordinaria Penelope Cruiz.
Sottolineo nota di chiusura riguardo Tony Servillo, sebbene compaia in tre film, di lui non se ne ha mai abbastanza!
Come sopra accennato i concetti in questa biennale cinema sono molteplici e stimolanti, quindi penso sia opportuno dare la giusta importanza anche alle lezioni di musica in “Ennio” di Giuseppe Tornatore dedicato al Maestro Morricone e in “Hallelujah” omaggio a Leonard Cohen di Daniel Geller e Dayna Goldfine.
Una ricchezza di stimoli che ci alimenterà per oltre un anno, quella che abbiamo avuto la fortuna di ricevere in questo breve ma densissimo momento del Venezia film festival, in attesa di vedere l’effetto e l’influenza che avrà sulle masse, con la speranza che possano trarne consapevolezza e vantaggio, e di valutarne l’evoluzione dei concetti nella prossima, ahimè lontana, edizione.
di Manuela Salamone
Foto di copertina: Rossana Viola